Qualità dalla A alla Zeta dei prodotti dell’Abruzzo
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Qualità dalla A alla Zeta dei prodotti dell’Abruzzo

Da clandestino a bordo, prezioso ospite non dichiarato in cantine prestigiose di molte aree rinomate d'Italia (e non solo...), a best seller nazionale: 13 milioni di bottiglie vendute nel 2006, primo vino con riferimento al vitigno in etichetta, e (dato recentissimo) vino sul podio, con Chianti e Nero d'Avola, come più venduto nella nuova grande distribuzione organizzata, quella con i banchi da vino lunghi decine di metri e gli armadi climatizzati per serbare e proporre al meglio i migliori, i top nazionali: quella, insomma, dove non manca più nessuna, o quasi, delle etichette-leggenda di Toscana e Piemonte. Un bel lavoro (“well done”, ben fatto, direbbero oltreoceano, dove pure i dati di export sono assolutamente rilevanti) quello del Montepulciano d'Abruzzo, uva bandiera di queste terre, e già uva-risorsa di altre. Oggi il vino che se ne ricava gioca in casa, non più esule, a carte ed etichette scoperte. E lo seguono in trenino, pur se non con pari impeto, il Trebbiano e, soprattutto, le nuove nicchie: il Cerasuolo, in spolvero evidente e il Pecorino, riscoperta e insieme new entry di successo.
Quanto all'olio, “compare” di collina della vigna di qualità, trova nei tanti olivicoltori appassionati (45.000 gli ettari olivetati) la piena valorizzazione delle varietà locali: dritta, gentile di Chieti e più rare cultivar locali come tortiglione, nebbio, intosso con le arciclassiche leccino (soprattutto) e frantoio (a distanza). Gli extravergine abruzzesi non vanno di certo più sdoganati, semmai ancor più valorizzati sul mercato italiano dopo i tanti successi sul mercato mondiale. A braccetto con le eccellenze della gastronomia (e la nuova visione dei migliori operatori della ristorazione) anche gli extravergine danno l'assalto al cielo. Che il vigneto Abruzzo, in buona parte, da qualche lustro già sfiora o tocca con un dito.


Una delle varietà più conosciute ed apprezzate di questa pianta erbacea è quella coltivata nella Valle Peligna -Solimo o aglio rosso di Sulmona- per l’elevata qualità dei suoi oli essenziali e la penetrante delicatezza degli aromi. Si tratta di un aglio veramente unico, che non ha riscontro nelle altre due qualità, rosa e bianco, solitamente coltivate in Italia. La pelle esterna, infatti, è bianca, ma quella interna che avvolge gli spicchi è di un rosso quasi porpora. Si pianta, generalmente, in autunno inoltrato e si raccoglie all’inizio dell’estate.

«Il piatto italiano che le piace di più »? Heinz Beck, magnifico chef della Pergola dell’Hotel Hilton rispose senza esitazioni all’intervistatore: «L’amatriciana. Vorrei averla inventata io»! Piatto abruzzese, certo, perché la provincia reatina è stata creata, ex novo, solo nel 1927 e fino ad allora Amatrice è sempre stata abruzzese, con tanto di feroce rivalità con i cugini aquilani.
Spaghetti, bucatini, rigatoni... e poi i semplici ingredienti di questo capolavoro della cucina povera: guanciale, pecorino, pomodoro (o magari no, nella versione integralista) e poi…un senso di cipolla, pepe o peperoncino (libere varianti).

Di grande diffusione in quasi tutta la regione sono gli arrosticini, sottili spiedini di carne ovina cotti sulla carbonella, da consumare bollenti: non c’è festa popolare, sagra o scampagnata che non li veda presenti, anche per la comodità di consumo che consentono.
Molte le trattorie ‘specializzate’ e rinomate per la bontà di questo gustoso e socializzante cibo popolare. Si tratta di una preparazione di probabile origine balcanica, ma presente e diffusa sul territorio regionale da secoli, e oggi più che mai rappresentativa della tradizione alimentare locale.

Naturalmente, non abbiamo dubbi, i migliori bocconotti sono quelli fatti in casa, dalle mani esperte di donne (e uomini, perché no?) che continuano a farli con la stessa ricetta tramandata (questa volta al femminile) da madre in figlia. Il bocconotto originale, che potete assaggiare in molte pasticcerie e locali di qualità, ha per il ripieno mandorle di prima qualità, tostate e tritate; cacao amaro; zucchero; limone; cannella e… soprattutto mostocotto: tanto quanto ne occorre per avere un composto della consistenza di una marmellata.

Piatto tipico della cucina marinara abruzzese è soprattutto il brodetto, una saporita zuppa di pesce colorata di pomodoro fresco che nasce per poter utilizzare tutta quella minutaglia di piccoli ed eterogenei pesci e pesciolini che costituivano “la scafetta”, il piccolo cesto di pesce che il pescatore poteva far proprio. Oggi è un piatto sontuoso, che può includere frutti di mare, scampi, seppie, merluzzo, triglia, scorfano, palombo, razza, cefalo, tracina, sogliola e molte altre specie minori. Bisognerebbe dire ‘brodetti’ al plurale, perché viene preparato in modo via via diverso dal nord al sud del litorale regionale. Abbiamo così, lungo i 133 chilometri di costa abruzzese, brodetti alla giuliese, alla pescarese, alla vastese (forse il più conosciuto, celebrato in giugno con una “settimana del brodetto di pesce alla vastese”. Per capire le differenze tra l’uno e l’altro, non c’è che da provarli tutti!

Questo pregiato formaggio pecorino si produce nel versante meridionale del Gran Sasso in nove comuni del circondario di Castel del Monte, comune a ridosso dello splendido altopiano di Campo Imperatore. La lavorazione del latte avviene a crudo, con caglio naturale di vitello o di agnello. La cagliata è posta nelle fuscelle (canestri) che conferiscono la particolare scolpitura delle forme. La stagionatura può variare da un minimo di 2 mesi ad un massimo di 18 -24 mesi per le forme da 15 kg. È il formaggio tipico della transumanza: lo spostamento delle greggi attraverso i ‘tratturi’ verso i pascoli della Puglia prima dell’inverno. C’è un Consorzio tra produttori per la tutela e la valorizzazione ed è un Presidio Slow Food.

Agli inizi dell’800 un appassionato erborista selezionò un gran numero di erbe aromatiche raccolte sulle montagne abruzzesi. Il liquore che ottenne, dall’inconfondibile colore verde smeraldo e dall’alta gradazione alcolica (oltre 70°!), ha un intenso profumo di erbe che, oggi, arrivano ancora fresche in fabbrica dove vengono lasciate essiccare e mondate affinché restino solo le foglioline. La ricetta, antichissima come detto, è ancora oggi gelosamente custodita, inalterata, dalla sola famiglia che produce questo particolare liquore a Tocco da Casauria, patria di questo straordinario liquore.

Le ceppe (piatto “simbolo” di Civitella del Tronto) sono una delle paste abruzzesi fatte in casa più buone in assoluto. Il classico impasto di acqua, uova e farina si lascia riposare in una terrina unta d’olio per circa 30 minuti. Si divide poi la pasta in tanti pezzetti uguali, che saranno allungati per circa 15 cm ognuno e avvolti singolarmente intorno ad un sottile ferro di calza, così da ottenere una specie di maccherone col buco. Ci vuole un’ora e mezzo di sapiente lavoro per ottenere un solo chilo di pasta. Le ‘ceppe’ si servono con il classico ragù di carni miste, magari spolverato con dell'ottimo pecorino.
Nell’attesa è d’obbligo visitare la splendida Fortezza Borbonica di Civitella salendo per la ‘ruetta’, la strada più stretta d’Italia.

Una tradizione che risale alla fine del XV secolo. Il confetto tipico è formato da un nucleo interno costituito da una mandorla intera sgusciata e pelata, rivestito da strati di zucchero sovrapposti per successive bagnature così da ottenere una crescita a strati della copertura cristallina senza l’utilizzo di amido. L’anima, poi, può essere costituita anche da altri ingredienti: nocciola, cannella, cioccolato, canditi vari, pistacchio, frutta secca.
L’evoluzione dei macchinari, le tipologie di lavorazione, la storia dell’arte confettiera a Sulmona, si possono ripercorrere presso il Museo che si trova all’interno della ditta Pelino, sempre aperto al pubblico (vedi sezione “Da Visitare). Un vanto la lavorazione artistica dei confetti: si preparano grappoli, spighe, rosari, cestini accostando forme e colori con straordinaria, secolare abilità e inventiva.
Info: http://h1.ath.cx/muvi/sistema/museopelino/

La base dell’impasto di questo salume, assai diffuso nell’intero Abruzzo e che, per esteso, va sotto il nome di salsiccia di fegato sono le frattaglie: fegato, cuore, polmoni in una percentuale che va dal 50% alla quasi totalità. A seconda delle zone, si aggiunge ventresca e carne magra del maiale in percentuali, come detto, variabili. L’impasto viene macinato finemente e condito con sale, pepe, peperoncino (fegato “pazzo”); talvolta anche con aglio schiacciato a coltello e alloro. Nella versione dolce, invece (soprattutto nell’aquilano) al posto delle spezie piccanti si aggiunge il miele in quantità dettate dall’esperienza e dalla consistenza e/o magrezza dell’impasto. Il momento migliore per il consumo è intorno a marzo-aprile, dopo l’asciugatura e la stagionatura.

È il lardo con venature di magro ottenuto dalla guancia del maiale rifilata secondo la classica forma triangolare. Il processo di lavorazione (almeno 3 mesi complessivi) prevede salatura, impepatura, affumicatura e stagionatura. Il sapore è intenso, leggermente piccante lasciando risaltare l’affumicatura. Il guanciale ha un legame molto stretto con il territorio di produzione, poiché da sempre, insieme agli altri derivati del maiale, è stato parte integrante dell’alimentazione dei pastori transumanti per la sua facilità di conservazione e trasporto e le sue buone qualità caloriche. È l’ingrediente principe degli spaghetti all’amatriciana.

È piccola e molto saporita: una minuscola lenticchia di pochi millimetri di diametro, globosa e di colore scuro. Le coltivazioni (davvero eroiche) sono tra i 1.200 e i 1.600 metri di altitudine, nel Parco del Gran Sasso e Monti della Laga. Per le loro piccole dimensioni non necessitano quasi di ammollo; solo di una piccola cernita a vista e di un buon lavaggio in acqua corrente. La cottura - con poca acqua a coprire, un paio di spicchi d’aglio, foglie di alloro e olio extravergine- parte a crudo e si protrae (con leggera ebollizione a pentola coperta) per circa venti minuti. La zuppa si può servire con qualche fetta di pane bruscato e un ulteriore giro d’olio extravergine. È presidio Slow Food.

Da secoli, il succo delle radici di cui questo territorio è ricco, è utilizzato come rimedio e medicamento in molti disturbi e malattie in erboristeria e dall’industria farmaceutica per il suo elevato potere edulcorante, che è circa 50-100 volte superiore a quello del saccarosio. Senza mai dimenticare il semplice, antico piacere di rotelle, bastoncini, pesciolini, confetti ripieni, caramelle, insomma di tutto quel campionario di multiformi delicatezze che hanno fatto la felicità di tutti: grandi e piccini. Non tornate dalla magnifica Atri – con la sua splendida Cattedrale, il Teatro Romano, il Palazzo Ducale, le sue Grotte e i suoi Calanchi – senza un piccolo acquisto di vera liquirizia.

Pasta simbolo della regione, che si ottiene adagiando la sfoglia - consistente ed elastica insieme- sull’apposito attrezzo tradizionale (un telaietto di legno attraversato nel senso della lunghezza da corde metalliche a guisa di chitarra) e passando sopra, con una leggera pressione e sempre nello stesso verso, il mattarello. Sotto la chitarra scendono questi ‘spaghetti’ a sezione quadrata che tanto bene sposano ragù d’agnello (preferibilmente in bianco con erbe di montagna), condimenti con funghi o tartufo, ma anche frutti di mare o una semplice salsa con pomodoro e basilico. Ci vuole pazienza e una certa abilità manuale, ma un primo piatto a base di spaghetti alla chitarra non può davvero mancare in un menu tipico abruzzese.

Piccolo capolavoro della grande cucina teramana. Occorrono belle foglie di lattuga, budellini e coratella di agnello, cipolla, maggiorana, prezzemolo, aglio (possibilmente fresco) olio extravergine, aceto di vino, sale e pepe... Si taglia la coratellina, si lava per bene, si sala leggermente e si lascia anch’essa a sgocciolare. Su ogni foglia di lattuga si adagia un poco di coratella, qualche fettina di cipolla e di aglio e il prezzemolo. Si stringono ben bene le foglie intorno al ripieno legando ciascuna “mazzarella” avvolgendola con i budellini accuratamente lavati con acqua e aceto. La cottura prosegue in forno, a calore medio, girando spesso e bagnando –se necessario con altra acqua ed aceto o in padella adeguata. Si servono ben calde, come delizioso antipasto o secondo piatto.

È “il” vitigno e “il” vino abruzzese per antonomasia. È la prima Doc ottenuta in regione: dal 1968 premia l'uva regina di queste terre, protegge e certifica vini prodotti (nonché imbottigliati e affinati) in aree vocate nelle quattro province, da pendici affacciate sui 130 chilometri di costa fino all'alta collina interna, con vigneti ubicati fino a 500-600 metri d'altezza. Bandiera del territorio, identitario ed eloquente nella sua forte impronta qualitativa (colore profondo e vivo dovuto alla naturale ricchezza di preziose sostanze polifenoliche, garanti di solida capacità evolutiva; profumi densi con tipiche note di ciliegia, base, con affinamento e maturazione, per un bouquet variegato e complesso) il Montepulciano offre, pur nella coerenza garantita dal vitigno, una gamma composita di sfumature, dalla morbida cremosità dei vini di zone più calde e generose all'eleganza setosa di quelli d'altura. Ma il suo marchio è comunque quello di una beva di succosa soddisfazione. La ricerca sulla specificità dei ‘terroir’ porta alla valorizzazione delle sottozone di produzione, come le recenti: Casauria, Terre dei Vestini, Alto Tirino.

È l'altra faccia (e l'altro colore) del Montepulciano, ed è protetto, con regole specifiche, dalla stessa Doc. È la tradizionale versione in rosa, ottenuta dalla stessa uva grazie a un contatto tra mosto e bucce assai più breve e delicato. Vino, alle origini, da autoconsumo (anticipato, veloce rispetto al rosso) per intuibili motivazioni socioeconomiche, in virtù della sua piacevolezza, di profumi, se centrati, davvero deliziosi, e di una beva “ponte”, capace di far da compagna alla cucina più profumata di terra come a quella di mare più saporosa, è divenuto la “terza gamba” dell'Abruzzo da vino.
E vive oggi, grazie anche all'opera di produttori accorti e rigorosi, e all'indiscutibile crescita di cultura e di accortezza tecnica nelle cantine, il momento di massimo successo della sua storia.

Verrebbe da dire, giocandoci un po' su, che il bianco Montonico somiglia all'immagine retorica a lungo associata agli abruzzesi.
È uva di buccia dura (enoicamente un vantaggio: protegge da muffe e malanni, e assicura apporti interessanti, se ben gestita); tanto che a lungo, proprio per la sua resistenza a viaggi e strapazzi, è spesso ‘emigrata’, spedita fuori d'Italia e consumata anche come uva da tavola. Ama terreni avari e climi freschi.
Ed è tardiva, richiedendo dunque coraggio (e sfide al meteo) a chi la coltiva. Ma ripaga con un vino speciale: bella acidità, nitido finale amarognolo e, in mezzo, note di frutta e spezie delicate. Il Montonico è vanto per ora solo di aree ristrette del Teramano: Bisenti e Poggio delle Rose. Da qui, grazie a pionieri coraggiosi, è partito il rilancio, ancora definito dalle esigue quantità prodotte, ma già oggetto di motivato interesse da parte degli ‘esploratori’ e intenditori più accorti.

Treccia, bocconcini, ciliegine, nodini… qualunque sia la forma, il fior di latte –il più fresco e diffuso tra i formaggi a pasta filata- è una vera prelibatezza abruzzese. Nelle fasce montane e pedemontane, la zootecnia è da sempre stata l’attività agricola più importante e la produzione di mozzarelle ha zone di particolare pregio, per la qualità dei pascoli (quindi del latte) e la artigianale tradizione casearia. Particolarmente apprezzate le mozzarelle dell’aquilano e delle zone ai confini con il Molise, a partire da Rivisondoli. La scamorza appassita (che trovate spesso abbinata al prosciutto come pietanza) è identica nella preparazione al fior di latte ma con minor percentuale d’acqua e la caratteristica crosta giallognola proprio perché lasciata appassire.
Legate con il caratteristico spago, sono di sapore più intenso e si servono cotte lentamente sulla brace o in forno.

Il disciplinare da rispettare per ottenere da parte dei produttori la denominazione d’origine protetta “Miele d’Abruzzo” è piuttosto rigida. Qui basti sapere che sia gli alveari che tutte le operazioni di lavorazione, confezione e commercializzazione devono avvenire all’interno del territorio regionale. Seguono molte altre regole a garanzia della naturalità e tipicità del prodotto, compreso l’elenco delle tipologie di miele ammesse alla denominazione, che è piuttosto ristretto: millefiori; millefiori di montagna (apiari ad oltre 800 metri s.l.m.); di sulla; di girasole; di santoreggia; di acacia; di melata e di lupinella (quest’ultimo una vera rarità abruzzese). Otto tipi di miele in tutto, ma con una gamma di profumi e sapori vastissima, ognuna legata oltre che alla tipologia, al territorio e al produttore.

Campotosto (e le sue frazioni Mascioni e Poggio Cancelli) sulle sponde del lago artificiale più grande d’Europa e nel cuore del Parco del Gran Sasso e Monti della Laga, sono i luoghi dove ‘si fanno’ e di cui il Presidio Slow Food garantisce qualità e autenticità.
Per prima cosa bisogna saper scegliere il grasso per il lardello centrale che è la caratteristica principe di questo insaccato di carne magra di maiale, ovoidale e della misura della mano di chi le fa. Le mortadelle si legano a due a due (da cui il colorito appellativo di ‘cojoni di mulo’) e si mettono a cavallo ad asciugare e a prendere un’ombra di fumo. Dopo tre mesi molti dicono che sono pronte ma dopo un anno, che tanto non si seccano (il lardello serve anche a quello) sono il massimo.

Nell’alta Val Pescara, in “tenimento di Castiglione a Casauria”, –zona interna collinare a 350 metri- è tradizione ultracentenaria coltivare e vinificare il locale moscatello. È uno dei più antichi vitigni autoctoni abruzzesi da cui si ricava, come si direbbe oggi, un delizioso vino da dessert o da meditazione. Gran parte della piccola produzione è destinata all’autoconsumo in occasione di feste familiari (la nascita, lo sposalizio) e pubbliche: la festa del Santo Patrono del 3 Febbraio e, in tempi più recenti, la locale sagra gastronomica. È un vino dolce naturale, equilibrato e piacevolissimo, da scoprire facendo una piccola gita in quel di Castiglione a Casauria e approfittandone per visitare la splendida abbazia di San Clemente a Casauria, nei pressi della vicina Torre dei Passeri.

Veniva preparato dai contadini quando nasceva il figlio maschio, per offrirlo nel giorno del suo matrimonio. Tecnicamente è un mosto di uve Montepulciano d’Abruzzo concentrato per bollitura nel caldaio di rame. Quando si aggiunge al mosto concentrato altro mosto fresco non fermentato (rifermenteranno insieme) si ha una versione più “bevibile”, il vino cotto, utilizzato come vino da dessert. Il mosto cotto vero e proprio è quello che si fa lasciando sobbollire il mosto fresco a fuoco moderato fino ad una riduzione della massa che, secondo gusti e utilizzo, può andare da un terzo ad un ottavo del volume iniziale. Viene utilizzato nella preparazione di dolci tradizionali, per conserve o come condimento in molte preparazioni di pietanze a base di carne.

La cultura mediterranea dell’olivo trova in Abruzzo una delle aree italiane più importanti, e disegna da secoli il paesaggio di interi territori tra il mare e la montagna. Una storia antica, quella dell’olivicoltura in Abruzzo, testimoniata dal recente recupero di un grande olivo nell’orto dell’abbazia di San Giovanni in Venere a Fossacesia, in provincia di Chieti, della veneranda età di oltre 1700 anni. L’Abruzzo vanta più di 50.000 ettari di superficie “olivetata”, insieme ai vigneti, la cartolina più rappresentativa del territorio collinare. Nella provincia di Pescara -prevalentemente nel cosiddetto “triangolo d’oro” di Loreto Aprutino, Pianella e Moscufo e nella Val Pescara- la DOP Aprutino-Pescarese, la prima a essere riconosciuta in Europa nel 1996. In provincia di Chieti, dove si concentra circa il 65% della produzione regionale, c’è invece la DOP Colline Teatine con le sottozone Frentana e Vastese. Ultima nata è la DOP Pretuziano Colline Teramane con le sue varietà locali Tortiglione e Castiglionese che vengono coltivate lungo le colline litoranee e per circa 25-30 km verso l’interno quasi fin sotto il Gran Sasso.

Tra le specialità dolciarie una menzione particolare merita il Parrozzo, moderna versione dell’antico ‘pane rozzo’ preparato dai contadini con il granturco.
La vocazione dolciaria di Luigi D’Amico e l’ispirazione di Gabriele D’Annunzio (che creò il nome) sono all’origine di questo dolce prelibato in cui il giallo del granturco è riprodotto dalle uova dell’impasto, lo scuro della cottura in forno a legna è evocata dalla copertura di cioccolato e la farina di mandorle pregiate dà quel tocco di dolceamaro che lo rende inimitabile.

Un rebus, com’è ovvio, voler attribuire a qualcuno in particolare la paternità del primo impasto di grano polverizzato ad acqua, e poi di aver pensato ad essiccarlo per necessità di conservazione e comodità di trasporto. La pasta secca abruzzese, a partire dalla ‘culla’ di Fara San Martino, a ridosso della Majella, è leader nel mondo per qualità e diffusione. L’acqua, l’aria, la sapienza della tradizione, le trafile in bronzo, l’essiccazione lenta e a basse temperature, i processi di lavorazione, il controllo delle materie prime (semole di grano di prima qualità innanzitutto)… ecco i semplici segreti della pasta abruzzese. Accanto a marchi notissimi, nei negozi abruzzesi potete acquistare prodotti eccellenti di molte piccole e medie aziende semi-artigiane che sono sulla tavola dei gourmet e nei grandi ristoranti di tutto il mondo.

Le “polpette con le uova e il formaggio” sono un piatto povero e buonissimo della tradizione. Si preparano facendo un impasto con poca mollica di pane, formaggio pecorino poco stagionato sbriciolato o grattugiato grossolanamente e uova sbattute bene: 6-7 uova ogni 500 grammi di formaggio. Poi un poco di prezzemolo tritato finemente. Le polpette si friggono in olio extravergine (o un buon semi di arachide) a media temperatura. Nel frattempo è pronta la salsa di pomodoro: leggera, con poca cipolletta (preparata in una padella larga) a stufare e i pomodori (magari freschi in stagione o in bottiglia) a scaldarsi dieci minuti. Ora è il momento di scendere le polpette nella salsa ad insaporirsi ed insaporire per altri dieci minuti.

È uno dei tanti ‘cugini’ ascritti alla prolifica famiglia dei Trebbiani.
Faceva parte da un pezzo del magma ampelografico (vigne miste, con vari vitigni, parenti stretti e non, coesistenti nello stesso appezzamento) che ha caratterizzato a lungo la viticoltura contadina della ‘pancia’ d'Italia e ha messo casa in particolare a cavallo del Tronto, sia sui colli della sponda marchigiana che di quella abruzzese. Proprio in Abruzzo, le sue caratteristiche (media acidità, ma buona struttura; aromi fruttati, più che floreali, orientati tra mela matura e banana, e interessanti nuance speziate) ne hanno fatto uno dei ‘recuperi’ di maggior interesse degli ultimi tempi. Innestato in vigneti dedicati e seguito con cura anche nelle risorte (e rampanti) aree da vino in zona Tirino (oltre che sui colli pre-adriatici), si è rapidamente guadagnato un posto al sole. Ed è oggi una delle novità più seguite del panorama enoico regionale.

Ogni piccolo produttore ha la sua tecnica e i suoi piccoli segreti, compreso l’utilizzo e la preparazione del caglio, ancora oggi tramandati all’interno dei nuclei familiari. Tante le aree particolarmente vocate, con nomi che sono un vero e proprio marchio di fabbrica e garanzia di naturalità, autenticità e bontà: Atri, Scanno, Pizzoli. Una citazione a parte merita il pecorino di Farindola: formaggio derivato del latte di pecore allevate nel versante orientale del Gran Sasso, a Farindola e in altri comuni limitrofi. Il latte è lavorato a crudo, in forme da 1 a 2 kg, con la particolarità del caglio usato per ottenere il formaggio: si ottiene, infatti, dallo stomaco del suino. Le forme, durante la stagionatura, vengono rivoltate e massaggiate (tradizionalmente dalle donne) e bagnate con olio di oliva extravergine e aceto per prevenire la formazione di muffe e non far seccare eccessivamente il formaggio. È presidio Slow Food.
Info: Consorzio di Tutela del Pecorino di Farindola - http://www.pecorinodifarindola.it/

Ricetta bandiera della gastronomia teramana, riassume in un cerchio teso e sottile di pasta porosa l'altro cerchio, storico e magico, che lega la colta cucina medicea, migrata a Parigi e rimpatriata qui come francese, a quella di Teramo, che ne ha mixato i tratti curtensi con la feconda sapidità delle radici contadine e montane. La scrippella crespella-crêpe riannoda già nel nome il percorso. Si fa legando dolcemente farina e uova battute (2 cucchiai rasi a uovo), diluendo con acqua, aggiustando di sale, e cuocendo delicatamente dai due lati in padellino (20-25 cm) appena unto (la tradizione dice lardo) un velo fine d'impasto. Elastiche, dorate, le scrippelle riposeranno un po' mentre si ultima il più classico dei brodi (ala di tacchino, muscolo, manzo, odori). Saranno poi cosparse su una faccia con formaggio a fili, speziate di cannella e arrotolate. Poste nelle scodelle, vanno servite annegate ('mbusse) nel brodo caldo versatovi su, e rifinite a piacere con altro cacio.

Dolce simbolo di Guardiagrele: “tre monti” di pan brioche farciti di crema e spolverati (come fosse neve) di finissimo zucchero a velo.
Fin qui la nota gastronomica, legata al nome della famiglia Palmerio e ad una seconda pasticceria, intestata alla famiglia Lullo “successore di Filippo Palmerio” come riportato nell’insegna. È però nella sua originalità, nella sua storia, nelle seduzioni, nelle evocazioni il lato più intrigante e fascinoso: materno ed infantile, maliziosamente erotico, rituale e simbolico, pagano e sacro nello stesso tempo. Ma come si mangiano? Il vero, elegante amante delle sise, le affronta in modo infantile, senza remore, e nell’operazione imbianca naso, labbra e mento ed è deliziosamente costretto a leccarsi tutt’ intorno le labbra, i ”baffi”, ripercorrendo gesti infantili, innocenti.

Storica ricetta per conservare il pesce, per destinarlo alle zone montane o ai lunghi periodi di magra. L’origine è spagnola: “Escabece” e gli ultimi artigiani vastesi. C’è la razza, il palombo… fritti, asciugati e lasciati raffreddare; l’aceto, il vino bianco, lo zafferano aquilano sono il liquido per la conservazione (e l’esaltazione del sapore) in botti di legno di rovere o recipienti di terracotta smaltata.
Squisitissimo cibo, con il fascino delle cose destinate a scomparire per sempre.

Da secoli, il merluzzo (Gadus Morhua) è essiccato ai venti del nord o salato. Il pesce lasciato essiccare per la conservazione è conosciuto con il nome di stoccafisso; quello invece salato (sicuramente più comodo e facile da reperire ma spesso di qualità inferiore) prende il nome di baccalà. Il merluzzo conservato non era considerato nel passato uno status symbol gastronomico, roba da gourmet, era un piatto povero e a buon mercato, tanto che, in Abruzzo, era chiamato “la carne dei poveri”.
Dalla Val Vibrata al chetino, dall’aquilano all’entroterra pescarese è un fiorire di ricette tradizionali di cui citiamo, per brevità di spazio, solo le più conosciute: baccalà con cipolle (tante) e pomodoro; linguine con pomodoro leggero e baccalà; in umido con l’uvetta e le prugne secche o fritto in pastella (natalizio); tortino di baccalà mantecato; in tortiera al forno con le patate.

Una recente indagine svolta dall’Agenzia Regionale di Sviluppo Agricolo ha censito le tartufaie naturali presenti sul territorio abruzzese. I risultati sono sorprendenti: 219 i siti produttivi di Tuber magnatum Pico; 175 quelli di Tuber melanosporum (il nero pregiato); 381 quelli di Tuber aestivum (lo ‘scorzone) e uncinatum e, infine, 109 quelli di Tuber borchii (il bianchetto). Per non parlare delle tartufaie coltivate, un’attività in espansione grazie anche agli incentivi regionali e alla migliorata formazione dei tartuficoltori.
L’Abruzzo, insomma, è una delle regioni più ricche di aree tartufigene (una stima parziale si aggira intorno ai 500 quintali), la cui produzione viene in gran parte commercializzata in altre regioni ed aree che hanno meglio saputo creare un ‘marchio’ intorno al tartufo. Ma qualcosa si sta muovendo. Stanno nascendo associazioni di tartuficoltori e cercatori volti alla salvaguardia del territorio (una delle piaghe è la raccolta precoce, abusiva e indiscriminata che distrugge e rende improduttive le tartufaie) e alla valorizzazione del prodotto nei confini regionali, garantendo regole certe, qualità garantita e prezzi competitivi. Già oggi i piatti stagionali a base di tartufo (nella ristorazione, negli agriturismi) sono una delle tipicità più apprezzate. Certamente, in futuro, questa impagabile ricchezza del territorio troverà un rilancio ed una ulteriore valorizzazione.

Ulisse Nurzia passava nottate intere nel suo piccolo laboratorio dolciario, sperimentando e inventando consistenze, gusti e sapori nuovi, moderni. Nacque così il "Torrone tenero al cioccolato" che si rivelò come una vera rivoluzione nel campo dei torroni. Nobilitò il prodotto, simile al torrone bianco tipo Cremona, aggiungendo il cacao a ingredienti semplici come le nocciole o le mandorle, il miele e il bianco d'uovo per l’ostia di copertura. Un torrone moderno ed equilibrato in tutte le sue caratteristiche organolettiche: l’amaro del cacao bilanciato dal miele e dal gusto appena amarognolo e gustoso delle nocciole tostate. Un vero successo destinato a durare nel tempo: un pugno di aziende, piccole e grandi e ognuna con la sua personale ricetta, tengono viva questa secolare tradizione.

È l’”altra” uva abruzzese d'impatto per fama e quantità prodotte, il brand bianco della regione. Il vino ottenutone (85% di apporto minimo) in aree vocate delle quattro province è a Doc dal 1972.
Detta anche Bombino (nome antico, oggetto di varie ipotesi e leggende), trasfonde il proprio Dna in vini dalle consolidate stimmate di freschezza e nettezza, piacevoli e gradevolmente fruttati. Ma ha anche adattabilità straordinaria a ‘terroir’ e metodi d'allevamento in vigna. Anch'essa sa dunque salire da aree premarine fino a quota 500-600 metri, mentre rigetta i fondovalle umidi (peraltro esclusi dalle regole della Doc).
Vino trasversale e amichevole per definizione, sa però sbalordire nelle sue espressioni più felici ed elitarie: alcuni Trebbiano abruzzesi (e il numero cresce, in linea con il trend della qualità media) sono capaci infatti di complessità e longevità tali da spiazzare e conquistare anche i più accorti conoscitori, e sfidare prodotti dai celebrati quarti di nobiltà enoica.

Nella zona collinare e pedemontana denominata del medio ed alto vastese, la maialatura ha assunto, nel corso dei secoli, una tradizione a spiccato carattere locale.
Questa è la patria di un insaccato davvero particolare: di lunga stagionatura e generosa pezzatura, composto con le parti più nobili del maiale, rigorosamente tagliate in punta di coltello.
Si presenta di grosso calibro e di grana grande, con la caratteristica forma ovoidale, l’interno di colore rosso arancio (grazie all’apporto nell’impasto di peperone rosso secco tritato dolce e piccante, con semi di finocchio selvatico e un pochino di pepe) ed un sapore soavemente piccante. I tagli di carne impiegati sono per il 70% di tagli magri (di cui almeno 80% prosciutto e lombo) e per il 30% pancetta e grasso prosciutto. Dopo l’insaccamento nel budello, segue il periodo di stagionatura, non inferiore a cento giorni.
È stato il primo tra i Presidi Slow Food abruzzesi.
Info: Accademia della Ventricina - http://www.ventricina.com/

Si tratta di un delizioso salume fresco da spalmare (in questo parente del territorialmente prossimo ciaùscolo ascolano), prodotto nel teramano con carne e grasso di suino macinati molto finemente, con l’aggiunta di sale, aglio, pepe bianco e nero macinati, peperoncino dolce e piccante, pasta di peperoni, semi di finocchio, rosmarino e buccia d'arancia. Viene conservato nel budello di maiale ma si può anche trovare in barattoli. La morte sua? Semplicemente spalmata su una fetta di pane abbrustolito.

Le Virtù sono il piatto principe della cucina teramana. Piatto che nasce dalla necessità di consumare, con l’inizio della primavera, tutto ciò che resta nella dispensa della famiglia contadina, previdente e risparmiosa per necessità durante la brutta stagione.
Una necessità che diventa virtù e festa, condivisione e rito collettivo. Un rito che si festeggia il primo maggio nelle case, nei ristoranti e nelle piazze di Teramo e di tutti i centri vicini.
Simbolicamente diventa una festa della primavera e della voglia di cancellare le durezze e i sacrifici dell’inverno. Non è il caso, in poco spazio, nemmeno di accennare la ricetta (e le infinite varianti). Basti dire che le Virtù sono una sorta di minestrone con ortaggi, verdure, legumi, erbe ed erbette aromatiche, carni e paste di vario tipo; che quasi tutti ingredienti hanno tempi di cottura i più diversi e vanno preparati a parte; che l’impresa può durare anche tre giorni. Solo alla fine si procede alla cottura, sempre separata, dei vari tipi di pasta e all’amalgama finale.
E in un solo boccone si brucia il risparmio di un anno e la fatica di più giorni. Anche per questo è un piatto di rara bontà.

“Zafferano dell’Aquila”. Così si chiama, da più di seicento anni, la spezia-droga che si ottiene dalla raccolta e dall’essiccazione degli stimmi (o pistilli) del fiore del “Crocus Sativus” nell’Abruzzo aquilano ed in particolare nella piana di Navelli dove lo zafferano ha trovato la sua ideale dimora. In Agosto si trapiantano i bulbi nelle aiuole preparate nei campi.
A metà Ottobre inizia la fioritura che dura circa venti giorni, fino all’inizio di Novembre. I fiori vengono raccolti la mattina presto, prima che il sole li apra. Poi si procede alla sfioritura, cioè all’asportazione degli stimmi che vengono messi ad asciugare mediante tostatura. Con la tostatura gli stimmi perdono i 5/6 del loro peso: con 600 grammi di stimmi freschi si ottengono appena 100 grammi di stimmi secchi. Nel vasetto da un grammo quindi, c’è il prodotto della raccolta di duecento fiori. C’è tanto lavoro, prima, dopo e durante la raccolta, ma ne vale davvero la pena perché parliamo di una qualità eccezionale, di profumi e sapori unici. I fili di zafferano vanno fatti rinvenire in un poco di acqua tiepida o brodo prima del loro utilizzo in cucina, per il tradizionale risotto o per le tipiche ricette abruzzesi: primi piatti con l’agnello o i gamberi di fiume; con le carni ovine o da cortile; nei dolci o ad impreziosire formaggi e latticini.
Info: Consorzio per la tutela dello zafferano dell’Aquila - http://www.zafferanodop.it/
Ia nuova frontiera del cibo e del vino in Abruzzo


Abruzzo, un Museo all’aperto
Noto in tutto il mondo per la sua natura, l’Abruzzo espone, come un grande museo all’aperto senza orari né mura, opere d’arte e monumenti nel suo peculiare e intatto paesaggio.
Accanto a luoghi celeberrimi come la rocca di Calascio, lo straordinario centro storico di Pescocostanzo, il Museo Archeologico Nazionale di Chieti, il poderoso castello cinquecentesco dell’Aquila, emozionano il viaggiatore decine e decine di meraviglie meno note, sparse in ogni angolo della regione.
I restauri di chiese e castelli, la sistemazione e la valorizzazione dei siti archeologici e degli eremi, la nascita di piccoli e grandi musei e dei nuovi centri visitatori dei Parchi, fanno sì che l’elenco delle cose da vedere si allunghi ogni anno.
Anche questo fa parte del grande fascino della “regione verde” d’Italia.

L’Abruzzo montano
Con numerosi centri sciistici con impianti di avanguardia, comprende i maggiori massicci dell’Appennino (il Gran Sasso d’Italia e la Majella), numerosi rilievi che raggiungono anch’essi notevole altitudine e altipiani intervallati dalle conche dell’Aquila e di Sulmona, mentre verso il confine con il Lazio si stende la fertile conca del Fucino, risultante dal prosciugamento del lago omonimo portato a termine dal Duca Alessandro Torlonia nel 1875, opera grandiosa, che peraltro era stata più volte programmata fin dall’epoca dell’impero Romano.
Quel che sorprende il visitatore alla sua prima esperienza di vacanza in Abruzzo è il fatto che nel breve volgere di poche decine di chilometri si passi dalle spiagge assolate alle alte vette e che spesso ambienti naturali selvaggi ed intatti, di assoluta bellezza, si trovino solo a poche decine di minuti di cammino dal comodo...

I parchi in Abruzzo
Fra le regioni italiane, l’Abruzzo è quella con la maggior presenza di Parchi naturali: un primato che fa dell’Abruzzo la maggiore area naturalistica d’Europa, vera “antologia del paesaggio euromediterraneo”, e che proietta la regione in un ruolo di leader assoluto nel campo del “turismo verde”, con oltre un terzo del proprio territorio vincolato alla protezione dell’ambiente.
L’Abruzzo ha i massicci montuosi più grandi ed elevati dell’intero Appennino, con cime che sfiorano i tremila metri e con due terzi della superficie regionale posti al di sopra dei 750 metri di quota.
L’Abruzzo ha i massicci montuosi più grandi ed elevati dell’intero Appennino, con cime che sfiorano i tremila metri e con due terzi della superficie regionale posti al di sopra dei 750 metri di quota.
Questa poderosa bancata montuosa si spinge fino a poche decine di chilometri dalla costa, sulla quale le cime più alte...
Abruzzo: la palestra ideale per le tue passioni
Al crescente sviluppo del turismo attivo, sportivo e d’avventura l’Abruzzo risponde giocando le carte vincenti della sua natura forte, dei suoi territori incontaminati, dei suoi mille sentieri fra gole, torrenti, castelli, eremi, vette, altipiani, boschi, antichi borghi: un mix emozionante per vacanze fuori dai luoghi comuni.
Chi conquista una qualsiasi delle vette abruzzesi, e gira lo sguardo tutt’attorno, capisce quanto siano vere le parole del famoso orientalista Giuseppe Tucci, secondo il quale nessun altro paesaggio del mondo assomiglia tanto al Tibet come l’Abruzzo montano. Agli appassionati degli sport alpini più impegnativi, i massicci montuosi abruzzesi sanno proporre sfide e ambienti di tutto rispetto, sia in estiva che in invernale.
Alpinismo classico, free climbing, scialpinismo trovano in Abruzzo...